Oggi il racconto erotico di Plug the fun lo scrive Cleis Ende, che per altro vi consiglio di seguire e leggere.
Se anche voi volete scrivere un racconto erotico e pubblicarlo sul blog potete inviarlo a: [email protected]
Aspettando i vostri racconti, vi auguriamo insieme una buona lettura.
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Levo la camicia, butto le scarpe di lato e salto fuori da jeans e boxer. Apro l’acqua della doccia e quella scende fredda, come al solito. Dannazione! Tra un’ora dobbiamo essere da Anna.
«Amore, mi hai ritirato l’abito in lavanderia?» urla Salvo dall’altra stanza.
«L’abito?»
Si affaccia alla porta del bagno. Ha i capelli gocciolanti e indossa solo gli slip e le calze.
Alza un sopracciglio. «Quello blu, che ho usato anche per il matrimonio di Diego…»
Ah, quello. Dovrei essere passato dopo il lavoro, prima di passare da mamma a prendere il mio abito. O no?
Chiudo l’acqua della doccia. Supero Salvo e vado in camera: sul letto c’è solo la busta porta-abiti che mi ha lasciato mamma. Eppure dovrei aver poggiato l’abito lì, dopo averlo portato a casa. Sempre che l’abbia portato a casa. Alla fine sono passato in lavanderia?
Faccio un giro su me stesso. Sull’omino ci sono solo la mia camicia e la maschera di lattice che ho usato per il play-party di ieri. Dalle maniglie dell’armadio non pende niente.
Salvo mi segue con lo sguardo, la fronte aggrottata. Abbasso gli occhi e mordicchio l’interno della guancia.
«Devo averlo dimenticato nella fretta.»
«Cosa? Gio, te l’ho detto un milione di volte!»
Si gira verso l’armadio, una mano tra i capelli. Non abbiamo granché con cui sostituire il vestito blu, che sia adatto a una cena formale in un locale di un certo peso.
Sono sempre il solito imbranato!
«Amore, e se usassi il mio? Tanto abbiamo la stessa taglia e io posso ripiegare su quello grigio.»
Sgrana gli occhi. «Metteresti quello grigio? Per me?»
Sospiro e annuisco.
Sorride. «Va bene, grazie.»
Si allontana verso la porta e si ferma sulla soglia. Torna indietro.
«Grazie, ma devi comunque farti perdonare.»
Sogghigna. Gli tirano gli slip all’altezza dell’inguine: cos’ha in mente quel pervertito? Mi mette una mano sulla nuca, avvicinandomi a lui. Ha gli occhi sbarrati e umidi, le guance rosse.
«Stavo quasi dimenticando del patto: “ad ogni distrazione, segue una punizione”.»
Mi lecco le labbra. Già, il patto.
Piego le ginocchia, ma lui mi prende per le braccia e mi tira su.
«Pensi che basti un pompino? E che razza di penitenza sarebbe?»
Prende la mia mano nella sua, trascinandomi fuori dalla camera. Ho la pelle d’oca e le dita dei piedi sono intirizzite.
Mi poggia contro il pilastro al centro del soggiorno. Sobbalzo al tocco del marmo contro capezzoli e cazzo.
Che ore sono?
«Salvo, rischiamo di fare tardi…»
Affonda la mano tra i miei capelli e mi strattona la testa all’indietro.
«Certo che faremo tardi. E sarà tutta colpa tua,» sibila.
La mano scende lungo la schiena, fino alle chiappe. Dà uno schiaffo e il rumore rimbomba nel soggiorno. Il dolore arriva e se ne va. Si lascia dietro il calore delle cinque dita, che si espande in tutto il fondoschiena.
«Aspettami qui.»
Si allontana alle mie spalle. Una porta si chiude.
Le dita dei piedi sono rigide, della stessa temperatura e consistenza delle piastrelle. Le muovo per recuperare un minimo di sensibilità e formicolano, prima di addormentarsi di nuovo. I capezzoli sono ritti e i peli che li circondano stanno sull’attenti.
Me lo merito: è la mia punizione.
Abbasso gli occhi: la punta del cazzo mi fissa.
«Ti sei addormentato?» Salvo si avvicina da dietro.
Scuoto la testa.
«Molto bene.» Poggia qualcosa a terra. «Culo in fuori.»
Obbedisco.
Lo schiaffo mi fa tremare le chiappe in onde che si allargano fino alle cosce. Il dolore sale alla testa, scema. Sospiro di sollievo, ma un secondo schiaffo mi succhia via l’aria dai polmoni.
Il respiro di Salvo è caldo contro l’orecchio.
«Ti ho punito abbastanza?»
Ho il culo caldo e il dolore si è ridotto a un formicolio.
Scuoto la testa.
Ridacchia. «Chi sono io per negarti la giusta punizione?»
Arretra e raccoglie qualcosa da terra. Lo schiocco risuona tra le pareti spoglie del soggiorno.
La frusta? Dio mio, non ce la posso fare. Ho le ginocchia molli, scivolo lungo il pilastro.
«Ti sei già pentito?»
Devo solo dire di sì e sarà tutto finito: ci prepareremo e usciremo di casa con un ritardo accettabile. Non succederà niente.
Raddrizzo le gambe. «Ho bisogno di una punizione più dura.»
«Bene, lo credo anch’io.»
Schiocco. Dolore. Stringo i denti, gli occhi tirati all’indietro. Mi aggrappo al pilastro per non cadere e un altro colpo arriva proprio sotto le chiappe. Boccheggio: come si respira? C’è solo dolore. Stringo gli occhi, una lacrima mi bagna le ciglia.
Un terzo schiocco e il bruciore si allarga nel retro delle cosce. Le fiamme partono da un solo punto, per allargarsi a tutta la gamba. Mi si chiude la gola.
Colpisce le chiappe. Il dolore scioglie il nodo alla gola. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e il bruciore si dissolve in un singhiozzo. Sollievo. Ho un vuoto allo stomaco, che sale fino al petto e alla testa. Mi accascio lungo il pilone.
Il pavimento è caldo contro il culo. O forse sono io ad essere caldo.
Salvo si poggia la mia testa sul grembo. Mi passa le dita tra i capelli, sulle guance, sul collo.
Chiudo gli occhi. Sorrido.
«Dobbiamo prepararci,» mormora.
Apro gli occhi. Ho le palpebre appiccicose per le lacrime. Mi sono appisolato? Mi metto a sedere, ancora tremante.
Salvo si alza, la frusta in mano. «Appendo questa un attimo nell’ingresso: la metto via dopo.»
Sparisce oltre la porta del soggiorno. Scoppia a ridere. Torna indietro e tra le mani stringe una busta della lavanderia.
Cielo, devo averla lasciata nell’ingresso soprappensiero.
Mi alzo per controllare meglio. Sollevo un lembo della plastica e sotto c’è la stoffa blu del vestito di Salvo.
Deglutisco. «Temo di essermi meritato un’altra punizione.»
Che peccato.