Oggi il racconto erotico di Plug the fun lo scrive E.
Se anche voi volete scrivere un racconto erotico e pubblicarlo sul blog potete inviarlo a: [email protected] .
Poche regole: un buon italiano e un minimo di 700 parole!
Aspettando i vostri racconti, vi auguriamo una buona lettura.
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“Da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare.”
FRANZ KAFKA
Ciao a tutti, io sono Christian.
Grazie per avermi accolto nel gruppo, avevo davvero bisogno di fermarmi, sono contento di essere qui oggi.
Ciao a tutti, io sono Christian. Sono 37 giorni che non faccio sesso, sono stati giorni lunghi quasi come tutti i 37 anni della mia vita.
Vi ringrazio per avermi accettato così, senza richieste, con il mio silenzio….
Ciao a tutti, io sono Christian.
Oggi vorrei raccontarvi la mia storia.
Sono sempre stato un marito fedele, un amico sincero, un uomo rassicurante.
Mia moglie è una donna bellissima ed elegante, ha gli occhi che parlano, la pelle candida, sempre profumata; ed ha un’intelligenza superiore alla norma. Questo mix, perfetto, la rende una di quelle donne che ti eccita al solo starle accanto, ma che -insieme- ti fa sentire quasi a disagio dalla tanta bellezza che emana. Abbiamo sempre avuto una buona intesa sessuale, ma quello che è successo quel pomeriggio di ottobre e poi nei mesi a seguire senza che potessi fermarlo, senza che potessi controllarlo, senza che volessi cambiarlo ha invece cambiato qualcosa dentro di me.
Da due anni almeno ero solito passeggiare con Lucy nel parco vicino casa mia, ogni pomeriggio all’ora in cui dalla scuola uscivano i bambini.
Vi confesso, senza vergogna, che quella mamma, che incontravo ogni giorno alla stessa ora, riusciva a far nascere in me i desideri più perversi nonostante non ne conoscessi neanche il nome…
Non potevo fare a meno di notare il suo modo originale nel vestire: sapeva mettere in mostra un generoso seno e il suo fisico morbido, aveva un trucco leggero che ne esaltava gli occhi color nocciola di tratto quasi orientale. Aveva un giorno i capelli legati, un giorno li lasciava sciolti, un giorno acconciati in maniera da evidenziare i lineamenti del viso; cambiavano spesso colore, quasi a delinearne l’umore. Ma la cosa che mi ha rapito è stato il suo sorriso grande, contagioso, ma che sembrava celare un’inquietudine dell’anima.
Scambiammo le prime battute quasi per caso, il mio cane aveva avuto la brillante idea di frugare nella sua borsa con tutto il muso rubandole un portadocumenti… “niente di grave, disse, anzi, sarebbe bello poter perdere e poi ritrovare la propria identità -così- senza conseguenze”.
Tutta la notte ripensai a quella frase sibillina, quasi non ci chiusi occhio, quanto aveva letto dentro di me e dentro i miei pensieri più nascosti? O quanto invece parlava anche di sé?
Il giorno dopo era venerdì, mi alzai già impaziente, il caffè lento, i pensieri veloci, un tensione sottile lungo tutta la schiena, lavorai distrattamente fino a pomeriggio: la mia testa viaggiava e per quanto non fossi solo e non potessi concedermi distrazioni, il mio corpo così caldo dalla vita in giù tradiva la mia solita imperturbabile glacialità … ero dannatamente in ritardo sulle mie scadenze, ma non potevo pensare -per quanto mi turbasse quel desiderio impellente- di perdere l’appuntamento con quella donna che mi aveva già fatto perdere il sonno prima ancora di saperne il nome.
Il fatto del giorno prima mi diede l’occasione di presentarmi.
“Ciao, sono Christian, le dissi. Spero che i tuoi documenti siano ancora intatti, vorrei potermi far perdonare per il furto involontario della tua identità…” mentre parlavo mi resi conto di essere già eccitato, non potevo distogliere il mio sguardo dai suoi occhi, così vivaci e allo stesso tempo così immobili già dentro ai miei.
Alice è un medico; ha un compagno, una figlia e uno Spaniel dalle lunghe orecchie pelose. Le sue giornate sono ben organizzate e scandite dagli impegni e da quella passione tanto eccentrica quanto romantica della danza aerea.
Mentre mi parlava di sé riuscivo a malapena ad ascoltare la sua voce, ero già altrove, ero già dentro il suono delle sue parole che ritmate, si allineavano al mio respiro, già corto, già perso nella fantasia di averla mia.
Io sono un consulente contadino così amo definirmi; professionalmente vivo una sola vita che tuttavia sembrano due, opposte e a ciclo continuo. Il mio lavoro mi impegna molto sia mentalmente che fisicamente e in questo ruolo ho investito una grande parte di me. Con discreto piacere venni a sapere che, tramite alcune conoscenze in comune, Alice aveva già in mente cosa facessi, pur non conoscendomi affatto.
Quel giorno abbiamo preso un gelato: nonostante l’autunno fosse ormai avanzato e il profumo delle caldarroste già nell’aria, il sole era caldo, i colori intensi. Il tempo sembrava essersi sospeso in un universo parallelo: senza passato e senza futuro.
Indossava un vestito leggero, di stile impero, allacciato appena sotto quel suo seno pieno, ampio quanto basta per lasciarmi immaginare la forma dei suoi fianchi, morbidi. Aveva il colore delle foglie d’autunno. Mi colpì la sicurezza con cui chiese il suo “Panna e Cioccolato” fu così fanciullesco ed innocente, ma allo stesso tempo così indipendente, così emancipato: “un cono panna e cioccolato” che iniziò a leccare davanti a me, guardandomi negli occhi senza nessuna titubanza come se sapesse leggere tra i miei pensieri il desiderio di essere già io tra le sue mani, sotto la sua lingua, dentro la sua bocca.
Ho paura di te: sei così bella!
Non affogarmi in notti tanto nere
Se prima non mi apri nel cervello
La porta che resiste al piacere.
Avevo bisogno di sapere che ci sarebbe stata ancora, l’indomani, avevo bisogno di sapere che la prossima notte insonne non sarebbe stata che popolata da immagini di noi due, nudi, dispersi, arrotolati. Le ho chiesto se potevo avere il suo numero, mi sarebbe piaciuto farle provare i prodotti dell’Orto…
“La porta del piacere… eccola, è qui”
Quella del tuo, sicuramente, sì.
“chi ti apre il cervello? Dimmi, chi?”
Chi lo sa aprire… Piano… sì, così…
“Facciamo che mi lasci il tuo” disse; lo registrò in fretta per poi salutarmi come se non dovessimo rivederci mai più. Io la guardai allontanarsi come se non dovessimo lasciarci mai più.
Sabato e domenica trascorsero veloci, assorbito dalla frenesia della mia doppia vita dormii una notte a Milano e la seconda a Piacenza come sono solito fare, nessun pensiero fedifrago attraversò la mia mente.
Riuscii quasi a sentirmi di nuovo il me stesso che conoscevo prima di conoscere Alice e di scoprire le mie fantasie.
So solo quello che mi basta a stento
per non sprecare i battiti del cuore,
perché sapere, sappilo. È un tormento:
è sempre chi più sa che ha più dolore.
Lunedì ore 17.00, sono sudato, sporco di terra, stanco, quasi un filo nervoso mentre sento vibrarmi la tasca, riesco solo a pensare all’idea che mi piomberanno altre bombe addosso.
Lo ignoro.
Vibra ancora.
Rido.
“se solo fossi una donna lo infilerei direttamente tra le cosce, almeno potrei godere prima di sapere di che morte morire”.
Fa’ presto, immobilizzami le braccia,
crocefiggimi, inchiodami al tuo letto;
consolami, accarezzami la faccia;
scopami quando meno me l’aspetto.
Era un messaggio vocale da un numero sconosciuto, un semplice “dove sei?”. Sussultai, se ne accorse persino mio padre. “Christian, che hai?” disse.
Fu questione di un attimo: ogni pensiero diventò impuro, ogni idea si trasformò in bisogno, ogni fantasia diventò desiderio. Già sentivo le mie mani sui suoi seni, la mia barba scorrere lungo il suo ventre, la mia lingua incontrare le sue labbra, umide, eccitate, il mio corpo dentro il suo corpo. Non potevo smettere di sentire nella testa quella sua voce così calda ripetermi “dove sei?”
Apri gli occhi. Che cos’hai in mente, dimmi!
Che porcherie stai ripassando, dimmi!
Chi ti minaccia, e di cosa, dimmi!
Se non mi insegni, come imparo, dimmi!
Ero, stanco, sporco di terra, sudato, eccitato come mai prima lo ero stato. Volevo davvero sdebitarmi del guaio combinato dal mio cane o volevo imparare con lei a coltivare ciò che fino allora non avevo ancora mai coltivato?
Al messaggio vocale seguiva il link per raggiungerla su Telegram. Tornai a concentrarmi sul mio lavoro, senza risponderle, ma nessuna azione da quel momento in poi aveva altro scopo che mettere fine al tempo in cui avrei dovuto aspettarla ancora.
Ho fatto una doccia lunga un’ora, il getto caldo ha lavato via la terra, il sudore e anche la stanchezza, ma non la voglia, ho chiuso gli occhi e mi sono abbandonato al ricordo di lei vestita d’autunno, che leccava il gelato.
Ed eccola. Una fantasia. L’ho immaginata per la prima volta nuda, in quel caldo sole autunnale inginocchiarsi sotto di me a prendere in faccia tutto quel getto, con i miei occhi neri persi nei suoi, pieni di desiderio.
Terra alla terra, vieni su di me:
voglio il mio vomere nella tua terra,
fiorire ancora traboccando e
offrire il fiore a te, mio cielo in terra.
Smaltita l’eccitazione, ma ancora nudo, avvolto nell’accappatoio azzurro, risposi al suo messaggio con una foto. Un mazzo di fiori di zucca. Già su telegram. L’accompagnava la scritta “questo perché penso che il gelato non sia bastato a farmi perdonare”.
“ti ho già perdonato, ma mi sei mancato oggi”
“dovrò farmi perdonare anche per questo?” le chiesi
“lo farai domani? Non so se posso aspettare”
“lo farò”
“nel mio studio alle 18.00, ci vediamo lì? Interno 13” + la posizione.
Ma come stai? Stai bene? Sei felice?
Oh, queste cosce così bianche e lisce!
E chi lo è? FELICE non si dice,
è una parola che immalinconisce.
Ho dormito quella notte un sonno pesante, profondo, avrei potuto sembrare morto. Forse lo ero. Forse lo era quella parte di me che avevo creduto, fino ad allora, di poter soffocare. O forse ero così vivo, finalmente, da potermi permettere di lasciar morire il pensiero, per far vivere il sogno. Senza conseguenze. Senza dovermi più nascondere, almeno a me stesso.
Martedì alle 6.00 ero già in strada, martedi’ alle 17.00 già in doccia. Che fai, esci? Mi chiese mia moglie. Sì, ma poi torno. Risposi sicuro. Non avevo paura. Non andavo lì per perdermi, ma per ritrovarmi.
Uscendo di casa, vidi sulla lampada sopra il mobile in salotto quella maschera che comprammo a Venezia, qualche anno fa. La afferrai, senza pensarci, la misi in tasca e uscii. Nulla prima di quel momento mi aveva fatto sentire così vicino al me stesso che avevo sempre voluto essere. Arrivai davanti alla porta dove brillava la targa con il suo nome marcato dal prefisso “dottoressa” ed un piccolo carico erotico si affacciò a me per quella figura che, mi accorsi, non conoscevo affatto.
Suonai.
Nessuno rispose, la porta si aprì in automatico. Poi si chiuse alle mie spalle, sperai che non ci fosse nessuno oltre a noi. E ne trovai subito un’altra, socchiusa.
Prima che si aprisse infilai la maschera in un gesto spontaneo, automatico, come se fosse la sola cosa da fare. Il nero del cuoio si univa con quello della mia barba spiccando sul bianco della camicia. Ero davvero bello, e lo sapevo. Volevo che fosse così.
“Buonasera Fridolin, ti aspettavo”, senza darmi il tempo di rispondere piantò la sua lingua nella mia bocca. Lo confesso, non avevo desiderato altro che questo inizio, avevo piacere che stesse accadendo e non era mia intenzione tirarmi indietro. In quel momento, per la prima volta, non ero più un marito fedele, ma un uomo che aveva voglia di un’altra donna. La sua lingua si muoveva nella mia bocca con avidità intenta a esplorare ogni millimetro mentre faceva aderire il suo corpo al mio ed i suoi seni conquistavano il mio petto.

Mi accorsi di avere un’erezione subito dopo che lei aveva cominciato ad armeggiare con la mia camicia.
Levò la lingua dalla mia bocca il tempo di dire “chiudi gli occhi, esprimi un desiderio” e poi tornare subito dopo a muoverla con ancora più avidità. Slacciò la mia cinta, aprì i miei pantaloni, usò le sue mani per trovare il mio sesso, cominciò a massaggiarlo dopo essersi bagnata la mano con la saliva. La muoveva dalla punta lungo tutta l’asta ed io non potevo far altro che mugolare di piacere.
“Dirigo io il gioco oggi” mi disse ed io non riuscii a controbattere perché ero troppo impegnato a fare in modo che questo momento non finisse ancora, non finisse già. Smise di baciarmi e si inginocchiò davanti a me senza mai levare i suoi occhi dai miei e facendo sparire, quasi per magia, il mio sesso, duro, dentro la sua bocca.
Muoveva le labbra come per accarezzarlo mentre sentivo la lingua bollente sul frenulo. Movimenti lenti di una bocca che rappresentava la proibizione ed il peccato che avevo voglia di compiere.
L’unica cosa che volevo era scoparla, con forza, e sentirla urlare, ma quando presi il suo braccio per spostarla sul divano lei sorrise facendo di no con la testa, ma senza smettere di succhiarlo, aumentandone il ritmo.
“Voglio scoparti” le dissi quasi implorandola, ma lei lasciando solo per un attimo libere le sue labbra dal mio pene disse con un tono che non ammetteva repliche “oggi non mi scoperai, ma ti prometto che lo farai”. E di nuovo tornò a succhiarmelo e poi a baciarmi per farmi sentire il mio stesso sapore e di nuovo a succhiarlo in un’alternanza che non ammetteva distrazioni.
Quando si accorse, dalle contrazioni, che stavo per godere, lo levò dalla bocca e muovendo la sua mano più velocemente sulla punta, l’avvicinò sul viso piegando indietro la testa pronta a ricevere il mio orgasmo. Il mio schizzo fu violento e copioso le riempì la faccia di sperma bollente e vischioso. Come finii, lei fece passare la punta lungo il suo viso per raccogliere lo sperma e portarselo alla bocca e sentirne, solo allora il sapore.
Si aprì il vestito e solo in quel momento mi accorsi che non portava il reggiseno. Prese i suoi seni tra le mani avvicinandoli alla bocca e fece colare lo sperma spargendolo soddisfatta sui capezzoli che erano diventati duri dal piacere. Mi guardava mentre lo faceva, i suoi occhi non avevano mai smesso di farlo, e sorridendo disse che il divertimento, per noi, era appena cominciato.
Ho continuato ad essere Fridolin, ogni giorno, ogni notte, ogni istante per i successivi 6 mesi.
Una doppio lavoro, una doppia vita, un doppio sogno. Una sola ambizione esplorare quell’intesa così intima, così naturale, così profondamente simile ai miei desideri più nascosti.
Quella maschera aveva i miei tratti più di quanto non li avesse il mio volto. Quella maschera aveva rivelato più di quanto avesse celato.
La faccia che ho indossato in questi 44 giorni, da quando non porto più quella maschera non è la mia. Ma quella dell’uomo che sono diventato dopo aver incontrare Alice, dopo aver conosciuto il me stesso che mi nascondevo, dopo essermi perso per ritrovarmi.
Perché su noi ritorni questo giorno
e faccia presto un patto con la morte
e perché faccia presto a far ritorno
stringimi forte, stringimi piú forte…
Grazie Christian per averci raccontato la tua storia, so che c’è voluto coraggio.
E grazie a tutti voi per essere stati qui oggi.
Ricordo a tutte le persone nuove che il nostro gruppo si riunisce tutti i martedì alle 18.00.
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L’immagine di copertina è uno splendido disegno di Lucille Ninivaggi.
Tutte le poesie contenute in questo racconto sono di Patrizia Valduga’ e sono tratte dal testo CENTO QUARTINE e altre storie d’amore.
Tutti i riferimenti a persone realmente esistite o a fatti realmente accaduti sono da intendersi nella loro accezione romanzata e di fantasia.
Grazie a chi saprà leggermi senza giudicarmi.
Grazie a chi mi aiuterà ancora a volare sulle sue ali.
E.